SPECIALE CRISI

Lavoro e formazione nell’epoca delle pandemie

Una riflessione sull’esigenza di ripensare format, strumenti e processi.

Andrea Granelli

Marzo 2020

Lavoro e formazione nell’epoca delle pandemie

In questo momento il mondo è concentrato su come contenere la possibile pandemia del Coronavirus e sulle cause che l’hanno scatenata. Tutto il resto diventa marginale e ancillare – perfino il lavoro.

Quasi tutte le recenti epidemie (Ebola, Sars, Zika, Mers e Coronavirus) sono dipese dall’elevata densità della popolazione, dall’aumento di commercio e caccia di animali selvatici e dai cambiamenti ambientali dovuti ad esempio alla deforestazione e all’aumento degli allevamenti intensivi, specialmente in aree ricche di biodiversità.

Una ricerca recente ha mostrato che è necessario integrare in modo sistematico la valutazione e la considerazione del rischio di pandemie nella pianificazione dello sviluppo sostenibile, visto che l'emergenza delle malattie infettive è tra le conseguenze del cambiamento ambientale.

Il fenomeno è dunque strutturale e non episodico, mentre la reazione del mondo del lavoro – riduzione delle occasioni di contatto e di presenza e imposizione forzata dello smart work – sembra invece molto congiunturale e soprattutto reattiva.

Ritengo, però, che siamo di fronte a una trasformazione epocale del modo di lavorare, che peraltro non è iniziata in questo periodo ma si sta solo acutizzando in alcune delle sue dimensioni. È infatti evidente che la mobilità sia sempre di più un costo, non solo diretto, come trasporto e pernottamenti, ma anche indiretto per i molteplici e crescenti rischi: malfunzionamenti dei sistemi di trasporto, scioperi selvaggi, crescente imprevedibilità e intensità del maltempo, aumento del rischio terrorismo… e il “nuovo” rischio delle pandemie.

Questa situazione sta, tra l’altro, determinando un impoverimento dei processi formativi – ancora centrati sull’esperienza di aula – causati da una progressiva riduzione delle sessioni formative in presenza o addirittura da una loro “sostituzione” con una versione banalmente digitalizzata (e quindi nei fatti degradata).

A ben vedere, però, il digitale fornisce, e soprattutto potrà fornire, molti contributi positivi, sia nei processi di apprendimento sia in quelli lavorativi (che la formazione dovrebbe contribuire a migliorare); infatti rende disponibili e diffuse:

•       le piattaforme per supportare l’apprendimento;

•       i contenuti base dell’apprendimento (informazioni, dati, presentazioni, video, articoli, libri, enciclopedie);

•       gli strumenti per organizzare la propria conoscenza personale (il “sé digitale”);

•       gli ambienti di lavoro, sempre più necessari e utilizzati (mail, chat, news, Skype, Google Drive… );

•       i sistemi di monitoraggio “da remoto” (tramite Iot e dati) dei processi e degli ambienti.

È quindi opportuno studiare nuove configurazioni, o meglio ibridazioni, non solo fra il fisico e il digitale, ma anche fra i processi di formazione e i processi di lavoro (una sorta di learning by doing digitally enabled), che vedano la remotizzazione – non solo di una persona ma anche di un team che deve collaborare e interagire – come la regola e non tanto l’eccezione da gestire in emergenza.

I futuri leader, pertanto, dovranno essere completamente a loro agio anche negli ambienti digitali, dove non si limiteranno a lavorare senza perdere in efficacia ed efficienza, ma dove imposteranno anche il proprio potenziamento personale nonché l’apprendimento continuo.

Ciò non vuol dire assolutamente puntare a un all-digital a tutti i costi ed eliminare le relazioni dirette, ma piuttosto trovare nuove forme di ibridazione e di interazione che consentano di estrarre il meglio da ciascuna tipologia di esperienza.

 

Nomade digitale: il paradigma del lavoro nel XXI secolo

Il digitale, unito alle trasformazioni organizzative, ha reso i confini delle aziende molto meno definiti e molto più porosi. La differenza fra dipendenti, precari, consulenti, free lance e fornitori è sempre più labile. Oltretutto, la necessità di lanciare processi di radicale trasformazione nelle aziende per adattarsi a mercati sempre più cangianti sta non solo trasformando il cambiamento in una nuova forma di permanenza, ma sta richiedendo in modo continuativo – quasi stabilizzato – rinforzi esterni ai processi di cambiamento (progettisti digitali, designer organizzativi, valutatori e formatori di competenze, coach ...).

In questo scenario fortemente trasformativo entra il digitale, con la sua capacità di contribuire ai modelli e processi organizzativi, alla formazione delle competenze, al modus operandi e alla produzione delle informazioni necessarie per decidere.

È pertanto riduttivo parlare di smart work – che spesso si esplicita nel lavorare fuori dall’ufficio con un po’ di supporto di strumenti digitali (talvolta è sufficiente il telefono e qualche ordinaria applicazione sul proprio PC). Forse sarebbe opportuno incominciare a parlare di “nomadismo digitale”, che si basa su due importanti capacità:

usare al meglio le nuove piattaforme digitali e le potenzialità del mondo dei dati;
saper lavorare – dovunque – senza perdere in efficienza e in efficacia.
Il vero nomadismo digitale (vedi figura) va molto oltre il semplice smart work – che da molte aziende continua a essere assimilato al telelavoro.

Come affrontare questo cambiamento forzato, ma ineluttabile?

Questa trasformazione tocca tutte le dimensioni aziendali, ma è particolarmente critica per le figure apicali. Un degrado delle loro prestazioni dovuto a forzature esogene – non solo lavorare da casa, ma coordinare i propri collaboratori sparsi sul territorio – potrebbe avere per le aziende impatti molto negativi. Oltretutto, oggi le aziende non sono pronte, o chi dichiara di esserlo sta nei fatti implementando forme contrattualmente sofisticate di telelavoro.

La sfida è quindi sia educativa – formare la classe dirigente a un nuovo modo di lavorare, fortemente digitally enabled – sia organizzativa: ridisegnare i processi aziendali facendo in modo che, sia la dimensione digitale, sia la remotizzazione siano la regola e non l’eccezione.

Si dovranno dunque riprogettare processi e modelli organizzativi per gestire, in modo nativo, queste nuove forme di ibridazione fra presenza fisica e partecipazione in digitale. E per fare ciò si dovranno privilegiare i contesti – siano essi fisici o digitali – dove verrà prodotto il maggior valore aggiunto. Superando pregiudizi e slogan.

Una cosa è certa: il digitale cambia la nozione di prossimità. Oggi essere prossimi a qualcuno non dipende più dalla vicinanza fisica: ti sono vicino perché conosco ciò che ti piace e ciò che ti serve e perché provo e suscito empatia. Oggi posso essere molto vicino stando molto lontano.

Sarà allora necessario condurre una vera e propria anatomia dei principali processi e comportamenti aziendali per riprogettarli con la lente del digitale, riaccorpando in modo innovativo la dimensione in presenza con quella digitale.

Prendiamo ad esempio le interazioni aziendali: a valle della rivoluzione digitale si possono aggregare lungo tre dimensioni:

1. luogo: interagire in presenza o da remoto;
2. tempo: interagire in modo sincrono o asincrono;
3. numerosità: interagire many-to-many, one-to-may, one-to-one, machine-to-machine.


Consideriamo l’interazione one-to-one: è sempre stata considerata il regno della presenza fisica (oltretutto necessariamente sincrona), dell’incontro de visu. Ma non è sempre la modalità più efficace. Prendiamo ad esempio una sessione periodica di mentorship o di coaching. In questo caso – dove la relazione fra i due interlocutori è già attiva e consolidata – la sessione su Skype è superiore rispetto alla versione “tradizionale”; e lo è per tre motivi.

Innanzitutto, in Skype il mentor esperto registra direttamente (scrivendo sul suo PC) quanto detto dal mentoree senza perdere nulla del discorso e mantenendo il contatto visivo. In presenza, invece, può prendere qualche sporadico appunto su un piccolo bloc-notes, appunto che deve successivamente integrare e ribattere per archiviarlo.

In secondo luogo, se il mentoree fa riferimento a qualcosa di già detto di cui il mentor non ricorda i contenuti, de visu la sua attenzione al discorso si riduce nello sforzo di ricordarsi quanto richiamato dal mentoree (non lo può chiedere direttamente…), mentre in Skype mentre lo ascolta e continua a guardarlo negli occhi, accede al suo archivio e rilegge le verbalizzazioni delle sedute precedenti, ritrovando l’affermazione evocata.

Infine, se il mentoree fa riferimento a qualcosa che il mentor non conosce (e non ci sono le condizioni per cui possa chiedere direttamente il chiarimento), nella sessione in presenza rimane il dubbio, mentre in Skype – senza distogliere l’attenzione del dialogo – accede a Google e approfondisce direttamente.

Oppure il caso delle riunioni. Con questa parola indichiamo un insieme estremamente articolato di eventi aziendali con anche differenti setting e finalità. Potremmo dire che “not all meetings are created equal …”. Partendo dalle finalità e dagli output attesi, possiamo identificare sette tipi di riunione:

•       per decidere

•       per negoziare

•       per controllare (gli stati di avanzamento, gli andamenti economici, …)

•       per produrre (un documento, una relazione, un nuovo approccio al mercato, ….)

•       per formare

•       per illustrare (un progetto, un nuovo prodotto, una scelta aziendale, …)

•       per intrattenere (alimentando team building e spirito di appartenenza).

È quindi evidente che non possono essere gestite allo stesso modo e che sia le dinamiche umane, sia le informazioni e gli strumenti necessari e le tipologie di luogo ideali per renderle più efficaci sono molto diverse al variare della tipologia di riunione analizzata.

Siamo quindi all’inizio di una nuova stagione dove le pratiche di lavoro, rilette con la lente del digitale, saranno molto diverse da quelle a cui siamo abituati. E quindi l’emergenza Coronavirus andrebbe vista come un’occasione per suggerire un approccio allo smart work che deve diventare non reattivo, ma proattivo.

Andrea Granelli è presidente di Kanso

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